Stanotte mi sono svegliato apposta per fissare questo capolavoro della sceneggiatura thriller/horror, dal quale mi sono destato con brividi e paura.
Eccovelo in tutto il suo splendore.
"All’inizio c’è labirinto, del quale ricordo poco, visto quasi tutto a volo d’uccello, fatto di siepi. Ci sono uscito a fatica, non ero solo.
Poi arriva il soggiorno a Roma, dove un’attrice dice di andare a trovarla. Io sono in una casa orribile, in una stanza nella quale non faccio entrare nessuno per vergogna. Forse c’è un letto a castello sulla destra. C’è la porta con le tende a sinistra dalla quale filtrano delle voci femminili e la luce. Ho tutta la roba sparsa per il pavimento, il valigione bordò, una macchina reflex, calzini, mi schifo pure a mettere i piedi per terra, sembra tutto bagnato.
Preparo uno zainetto con delle cose e vado verso Cinecittà. Mi trovo così al tramonto ad attraversare lo stradone dalla parte della ferrovia verso la città, però come se uscissi dall’ospedale, tutto illuminato e pressoché deserto. Sono con M.d.C. non so chi altri, andiamo verso sinistra e trovo un parco giochi sulla destra, ci sono delle giostre. Una è monumentale, fatta a L con due piovre: mentre le navicelle girano sui binari, vengono agganciate e shakerate su e giù molto rapidamente. Una lo fa più lento, la seconda MOLTO più veloce. Continua questo giro, che sembrava essere in pullman, ma ora non lo è più, in una piazza, dove chiedo ad A.M. e a M.d.C. se hanno fatto il labirinto cachizzo che abbiamo appena superato. Chiedo di confrontarlo sulla cartina: uno in pietra minuscolo non può essere quanto quello in siepi. La pianta è simile a quello di Donnafugata.
La piazza è simile alla piazza principale della mia città, io ho alle spalle e a destra un palazzo, il solito palazzo con il solito pianterreno nero e bordò e col sottoscala pauroso di metallo, con la ex pasticceria, l’odore di dolci e di piscio. La piazza è luminosissima, di celeste e giallo abbagliante, con forse il bar storico, una fontana tipo Piazza Umberto a Bari, tanti lecci.
Faccio un po’ di strada e devo entrare a teatro, ci sono scalini, piante, plumerie, cactus, tanto sole ma la cosa è inquietante perché il percorso è lungo e diventa sempre più scuro. Mi infilo in un andito, un arco buio e chiedo di poter entrare, sento la moquette e la polvere, vedo un sipario bordò a sinistra.
Poi mi trovo in un punto della costa, pugliese per conformazione, calabrese nei fatti. Siamo al tramonto e io lo percorro con F. e non so chi altro, forse due donne, una strada a livello degli scogli con i paletti per delimitare la carreggiata, un interminabile crepuscolo rosa sul mare, non c’è un albero in giro, solo pietre, la strada sulla destra e il mare sulla sinistra.
Camminando, indico una casa in alto a destra. Tra le rocce di questa montagna incombente c’è una enorme struttura bianca coi profili superiori in terracotta, come le chiese del centroamerica, e io le dico che quella è la grancia di San Bruno. Più volte. Ci giriamo a guardarla ma la strada comincia ad inerpicarsi, dobbiamo arrampicarci. Le dico che non c’entra niente con Serra San Bruno, che quella è l’ultima stazione di posta da sud verso Serra, e – solennemente – che Serra San Bruno è in Calabria.
Continuiamo ad arrampicarci, diventa chiuso, di legno. Ci riposiamo, sembra, e approfittiamo per mangiare forse le schiscette; o fare un selfie. Siamo in un angolo a destra, in questo posto a metà tra una chiesa e una biblioteca, con le colonne, i gradini, i sedili in legno scuro. F fa diversi tentativi, ma non riesce a fotografarsi con… boh. Arriva E.C. con la sua macchina e prova a scattare. Nel frattempo si apre alle sue spalle un pannello scorrevole dentro il quale c’è un quadro con un orrendo viso dagli occhi scavati che guarda intensamente F. mentre si mette in posa.
Pare ci sia un gioco da risolvere, un uomo che scuoia gatti e lancia messaggi tipo enigmista. Quindi capisco che siamo in pericolo. Immagino come scene di un film d’orrore dei punti messi sulla pelle con ago e filo, siringhe fatte con aghetti e punte nere, tipo mine di matita, lanciate contro la pelle. Più volte, di continuo, con musica tensiva, strobo anni 70 e di volta in volta con più esempi.
Forse dico a F. di abbassarsi, sento i “zzzzip” e capisco che quel viso sta lanciando le mine velenose, uccidono istantaneamente, l’infermiera nell’altra navata forse è già morta.
Cambiamo sala e non capisco ancora se io sono su di lei o lei su di me. Forse è alternata di istante in istante. Siamo in una sala tipo ufficio, sempre di quella biblioteca. Ci sono depliant di supermercato, forse è un altro indizio. Sento la pressione. Pare che il vecchio cucia sacchetti con le pelli dei gatti. Che li tenga in frigo per non farli decomporre. E cosa ci metterà mai dentro? DEI PANNOLINI USATI! Urliamo dallo schifo! E vedo chiaramente questi sacchetti con ancora la carne attaccata mentre li scuoia e li cuce; poi forse li riempie e li deposita in frigo. Il segreto era quello, così che sento quella voce maschile sfidarmi ancora. Io sono su F. adesso, e nonostante non ci sia nessun altro nella stanza, sento due mani che mi cingono i fianchi, fredde, che mi terrorizzano e mi mettono i brividi."
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